
Raccontare Ascoltare Comprendere
Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.10 n.1 Janvier-Avril 2012
“SIAMO STATI TUTTI BAMBINI PER UN TEMPO DELLA NOSTRA VITA”. INSIDIE E POTENZIALITÀ DEI RICORDI D’INFANZIA NELLA RICERCA ETNOGRAFICA CON I BAMBINI
Caterina Satta
caterina.satta@unipd.it
Dottore di ricerca in "Sociologia: processi comunicativi e interculturali".
Svolge attivitàdi ricerca nell'ambito della sociologia dell'infanzia e
della vita quotidiana occupandosi principalmente di tempi e spazi, culture
dei bambini e culture educative. Attualmente è assegnista di ricerca presso
il Dipartimento FISPPA dell'Università di Padova. Ha in pubblicazione
con Carocci il libro "Bambini e adulti: la nuova sociologia dell'infanzia"
(2012).
Come una madre che accosti il neonato al petto senza
svegliarlo, così la vita procede per lungo tempo con i ricordi ancora
gracili dell’infanzia.
Walter Benjamin
Fare ricerca con i bambini. Qualche premessa
Sono ormai diversi anni che faccio ricerca con i bambini adottando metodologie
qualitative, in particolare etnografiche, e sperimentando tecniche di
indagine più child centred, così come prevede tutto un filone di studi
che si sta consolidando nell’ambito delle ricerche sull’infanzia. Questo
fiorire di tecniche e di strumenti che si inseriscono in un altrettanto
fiorente mercato editoriale, specie anglosassone, di manuali, libri e
articoli specializzati nella raccolta o nell’analisi di tale “strumentazione”
(Christensen, James 2008; Greig, Taylorand, MacKay 2007; Farrell 2005;
Kellett 2005; Fraser et al. 2004) si poggia sull’assunto condiviso che
i bambini sono un peculiare soggetto di ricerca. Dei soggetti, cioè, che
si distinguono da quelli tradizionalmente studiati nelle scienze sociologiche
(giovani in primis, donne, migranti, gay, lesbiche, queer e altri gruppi
marginalizzati) perché più piccoli, e quindi non pienamente socializzati
alle norme e ai valori di una data comunità e non ancora in grado di padroneggiarli
adeguatamente, e perché ancora carenti di conoscenze e saperi. Questa
costruzione dell’identità dei bambini per sottrazione, come “non essere”,
“non ancora” o “carenti di”, si ritraduce, d’altra parte, in un’attribuzione
nei loro confronti di caratteristiche di preziosità (Zelizer, 1985) e
vulnerabilità che richiedono al mondo adulto un carico di attenzione e
cura superiore a quello richiesto per altre soggettività. Lo stesso carico
di attenzione e cura si riscontra tra quanti svolgono ricerca sociale
con i bambini. Uno dei punti più critici è la questione dell’alterità
infantile che è transitoria (il bambino è “altro” sino a quando è bambino)
e in via di definizione (essendo il bambino in una fase di crescita i
lineamenti di questa alterità sono in continuo mutamento e ridefinizione
durante l’infanzia). Questi aspetti si ritraducono in questioni metodologiche
di non facile risoluzione nella fase di progettazione di una ricerca.
Come affrontare, ad esempio, una differente padronanza del linguaggio
verbale, specie nel caso dei più piccoli, edel linguaggio del corpo, ancora
non sufficientemente disciplinato dalle istituzioni familiari e scolastiche?
O ancora, come far fronte ad un differente grado di sviluppo, specie in
conoscenze ed esperienze, di libertà e soprattutto di potere agito e riconosciuto
ai bambini?
Un esempio di tale mancanza di potere anche all’interno della ricerca
è offerto dalla fase della richiesta di autorizzazione cui i ricercatori
dell’infanzia devono “sottoporsi” prima di stabilire anche il minimo contatto
con i bambini. Uno dei principali ostacoli che essi infatti attualmente
incontrano è l’obbligatoria negoziazione del loro accesso al campo con
degli adulti, i cosiddetti gatekeeper, i custodi di un mondo infantile
che è sempre più separato da quello degli adulti (Zeiher, 2003). Chi si
trova quindi a decidere, prima ancora dei bambini, aprendo e chiudendo
loro la possibilità di scegliere, sono gli adulti, siano essi i genitori,
i maestri, gli educatori o gli allenatori a seconda dell’ambito di ricerca
individuato. Tutto questo perché i bambini sono considerati vulnerabili
e quindi da proteggere all’interno di luoghi e istituzioni ben definiti
garanti della loro protezione e incolumità che un “agente esterno”, come
un ricercatore, con la sua domanda di ricerca potrebbe in qualche modo
mettere “in pericolo”.
Quelli che ho sommariamente descritto sono solo alcuni dei principali
argomenti di cui si discute nell’ambito della metodologia della ricerca
con i bambini. Questo contributo vuole provare ad aggiungere un tassello
problematico in tale quadro già sufficientemente complesso e denso di
questioni etiche e sostantive, e mira ad indagare in chiave metodologica
il tema dei ricordi d’infanzia del ricercatore coinvolto in ricerche empiriche
con bambini, analizzando riflessivamente il ruolo giocato da pezzi della
sua personale autobiografia nella comprensione dell’infanzia [1].
Se, a seguito della svolta riflessiva degli ultimi trent’anni nelle scienze
umane e sociali, l’attenzione alla soggettività del ricercatore risulta
sicuramente cresciuta in tutte le ricerche che adottano metodologie di
analisi qualitative [2], la questione
si fa ancora più delicata nel caso di ricerche etnografiche che riguardano
i bambini. Non solo per le rappresentazioni sul bambino dominanti sia
nel senso comune sia in quello più tradizionale delle scienze sociali
- ancora non pienamente coinvolte, specialmente in Italia, dal cambiamento
di paradigma sull’infanzia introdotto dall’approccio della new childhood
sociology (Corsaro, 1997; James, Jenks Prout, 1998; Mayall, 2002; Satta,
2012) - ma più specificamente per quel tratto certo della biografia di
un ricercatore sociale dell’infanzia, il fatto, cioè, che anch’egli è
stato nel passato un bambino.
Come ben sottolinea Philo (2003):
forse più che in molte altre ricerche socio-culturali in cui il ‘noi’
rimane fondamentalmente ‘altro’ dalle persone su cui si fa ricerca, c’è
ancora un frammento di connessione tra il ricercatore e i soggetti ricercati
perché tutti ad un certo stadio della vita siamo stati bambini, più piccoli
fisicamente, carenti di esperienze e ampiamente dipendenti, curati e regolati
da adulti (p. 10).
Ciò che si intende pertanto indagare è la posizione del ricercatore adulto
che non solo con le sue conoscenze ma con la sua stessa esperienza di
vita accede al mondo dei bambini. Una domanda a cui si vuole cercare di
rispondere, seguendo lo stimolo offerto da Philo (2003) nel suo “To go
back up the Side Hill”. Memories, imaginations and reveries of childhood,
è se, e come, il ricercatore può assumere i suoi ricordi come strumenti
di ricerca in grado di metterlo in contatto con il mondo dell’infanzia
che sta indagando [3].
Questo articolo presenta le riflessioni di una ricerca che è allo stadio
iniziale ed è nata non tanto sul campo ma “a tavolino”, nei momenti in
cui finite la raccolta dei dati e la compilazione dei diari etnografici
mi trovavo a interpretare quello che avevo osservato. Mi succedeva spesso
in quelle situazioni che un ricordo della mia stessa infanzia riemergesse
a tinte chiarissime. Un ricordo che fungeva quasi da chiave di volta nella
comprensione del fenomeno che stavo cercando di comprendere. L’articolo
nasce esattamente in questa fase, tra la scrittura e l’interpretazione
del proprio resoconto etnografico, in uno di quei momenti di transizione
e di sospensione in cui non si è ancora completamente fuori dal campo
né già nel dibattito della comunità scientifica. Ritengo che questi ricordi
non siano “neutri”, non siano solo pensieri passeggeri destinati a fare
inevitabilmente capolino e poi a sparire. Da ricercatrice dell’infanzia
non posso trattare questo aspetto con la stessa leggerezza con cui i ricordi
bussano alla mia testa perché capire che ruolo giochino mi può aiutare
a mantenere la giusta distanza dal mio campo, ad assumere cioè la consapevolezza
della genesi di alcune interpretazioni, e, ancora di più, a rispettare
il campo dei bambini, ossia a evitare il rischio di proiettare sull’altro
la mia storia.
A partire da questa riflessione metodologica-riflessiva sul ricordo del
ricercatore si cercherà poi di estendere la discussione alla complessa
relazione tra ricordi e relazioni intergenerazionali. Se comprendere come
il ricercatore “usa” il suo ricordo dell'infanzia dice di come egli ri-costruisce
l'infanzia nei suoi resoconti, allo stesso modo comprendere come gli adulti
(siano essi genitori, educatori, nonni o altre figure) ricorrono ai loro
ricordi per educare i bambini dice della distanza-vicinanza esistente
in una relazione intergenerazionale e delle rappresentazioni che essi
hanno dell’infanzia. In conclusione, una breve presentazione del mondo
dei ricordi degli stessi bambini ci aiuterà a problematizzare ulteriormente
questo quadro analitico decostruendo una rappresentazione dominante sui
bambini unicamente come il “nostro futuro” o come veicoli del “nostro
passato”.
Il ricordo quindi da strumento di ricerca si fa anche oggetto di riflessione,
da narrazione interna, silente e privata, diventa parola e testo interpersonale
daraccontare, da ascoltare e infine da analizzare.
Il ricordo d’infanzia come narrazione
L’infanzia ricordata è un topos letterario ormai tanto abusato, specie
nella nuova narrativa, da far parlare molti criticidi “infantilizzazione
della letteratura” [4]. Romanzi che
hanno per protagonisti bambini che raccontano in prima persona il mondo
dell’infanzia e il mondo spesso incomprensibile degli adulti, e ancora
biografie e autobiografie che dedicano capitoli interi ai primi anni di
vita di personaggi noti si succedono tra le novità negli scaffali di librerie
e biblioteche e nelle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali.
A ben vedere il “genere infanzia” non è poi così recente, non foss’altro
per l’uso metaforico che dell’infanzia è stato fatto nei secoli in molti
ambiti, dalla filosofia alla psicologia, dalla letteratura al cinema.
Il punto che però mi preme sottolineare è proprio questo: l’infanzia si
fa metafora. Essa non è quindi quella concreta dei bambini che nel nostro
presente vivono accanto a noi ma è quella rarefatta del ricordo, persa
nell’asse temporale della nostra storia personale e della storia collettiva
di una comunità.
Ciò che vorrei qui indagare è proprio la considerazione del passato come
qualcosa di “perso”, di “finito per sempre” e di “irrecuperabile” (Jones
2003) o come una parte della nostra vita a cui si può attingere attraverso
un certo tipo di ricordo (Philo 2003). Chiaramente la questione non può
essere posta in termini dicotomici, possibile-impossibile, anche perché
si tratta di un materiale narrativo, il ricordo, insidioso e fallace,
in cui la descrizione di “quello che è stato” è superata spesso dall’impressione,
dalla sensazione, dalla rappresentazione che ci resta nel tempo di quello
che è stato.
Nel 1932, mentre ero all’estero, iniziai a rendermi conto che presto avrei
dovuto dire addio per molto tempo, forse per sempre, alla città in cui
ero nato. Nella mia vita interiore avevo più volte sperimentato come fosse
salutare il metodo della vaccinazione, lo seguii anche in questa occasione
e intenzionalmente feci emergere in me le immagini – quelle dell’infanzia
– che in esilio sono solite risvegliare più intensamente la nostalgia
di casa. La nostalgia non deve però imporsi sullo spirito come il vaccino
non deve imporsi su un corpo sano (Benjamin, 2007, p. 3).
Con queste parole Benjamin in premessa alla raccolta di suoi ricordi,
o meglio di «immagini» della sua infanzia nella metropoli berlinese, descrive
il difficile equilibrio che si deve mantenere nell’atto del ricordare.
Descrive, in altri termini, il rischio della trasfigurazione di questo
passato che con il trascorrere del tempo diventa altro e invita a controllare
la spinta emotiva associata al ricordare perché potrebbe in qualche modo
offuscarlo.
Aitken (1994), citando Schactel (1959), parla a questo riguardo di “amnesia
dell’infanzia” evidenziando così la problematicità del richiamare alla
mente la nostra “vera” esperienza d’infanzia perché si riferisce ad un
periodo che pur vissuto è così lontano dalla nostra attuale condizione
che per l’adulto è difficile da recuperare nella sua integrità. Difficoltà
che andrebbe quindi per Aitken ad intaccare l’utilità euristica del ricordo
per l’impossibilità di costruire, a partire dall’esperienza infantile
del ricercatore, dei legami con i bambini del presente.
Una tale concettualizzazione della memoria e del ricordo sembrerebbe però
affermare il possesso di una presunta conoscenza oggettiva del mondo che
con il tempo verrebbe in qualche modo deteriorata. Il fatto è che il ricordo
è una narrazione personale del proprio passato e come tale non può essere
sottoposto ad un processo di validazione. Come afferma Riessman «le narrazioni
non rispecchiano il passato, lo riflettono».
Immaginazione e interessi particolari, influenzano il modo in cui i singoli
scelgono di collegare eventi e renderli significativi per gli altri. Le
narrazioni sono importanti nelle ricerche proprio perché i narranti non
riproducono il passato così come era ma lo interpretano. Le “verità” dei
rescoconti narrativi non risiedono nella loro fedele rappresentazione
del passato ma nelle mutevoli connessioni che essi stabiliscono tra presente,
passato e futuro (Riessman, 2004, p. 708).
La memoria «non è solo un recupero del passato dal passato, è sempre una
fresca, nuova creazione dove i ricordi sono recuperati nel regno del conscio
e qualcosa di nuovo è creato in quel contesto» (Jones 2003, p. 27). Per
questo Jones ne parla come di una “rilettura senza fine” ma“finita per
sempre”. Non esisterebbe quindi un passato recuperabile in sé ma una continua
rivisitazione di quel passato nel presente. Un instancabile lavorio, una
continua opera di re-immaginazione (Wright Mills, 1962) che da luogo remoto
e lontano lo farebbe invece risultare costantemente vicino e presente
nelle nostre vite.
La memoria è un processo narrativo poiché come scrive Riessman non è mai
una riproduzione fedele di “quello che è stato”, non è mai una riproposizione
senza mediazione del passato. Alcuni eventi sono selezionati, organizzati,
connessi e valutati come significativi per audience particolari. Come
in un racconto ci sono un intreccio e uno scenario in cui far agire e
interagire tra loro dei personaggi. La memoria è cioè un processo di riscrittura
continua del passato, di cui è importante riconoscere la trama, i tasselli
che la compongono, capire per chi e per quale ragione è stata tessuta
in quel modo. Ad esempio, quali aspetti della nostra infanzia selezioniamo
nella revisitazione del nostro passato? Che tipo di narrazioni del passato
infantile ricostruiamo? Perché?
Il ricordo d’infanzia. Proiezione adulta o possibile legame intergenerazionale?
Il problema da cui siamo partiti circa la possibilità di usare la memoria
come strumento interpretativo dell’infanzia è che per Jones il passato
è passato ed è “per sempre finito” nella forma in cui lo abbiamo esperito,
mentre per Philo sono possibili dei “ritorni” a quella fase della nostra
vita dati dal fatto che tutti abbiamo vissuto la condizione di bambini
e sentito come caratteristica distintiva quella di “non essere grandi”.
Nell’affrontare questo tema Philo si sposta su una dimensione poetica
dell’esistenza, allontanandosi cioè da un piano meramente empirico e ricorre
al concetto di revêrie di Bachelard, il quale per primo considera le revêrie,
le fantasticherie, un modo per “rientrare” in qualche modo nel mondo dell’infanzia.
Egli si riferisce quindi a quelle forme di ricordo irriflessive, inconscie
che emergono dall’oblio in cui erano state temporaneamente conservate
in maniera involontaria. Le emozioni giocherebbero insieme all’immaginazione
e al ricordo un ruolo centrale nella costruzione di un ponte immaginario
tra adulti e bambini. La loro posizione non è però irrilevante nel processo
mnemonico poiché, come mette in guardia lo stesso Benjamin, esse potrebbero
influenzare lo stesso processo di ricerca, quello che si scopre o non
si scopre, quello che si percepisce o si tralascia. Il ricercatore, nell’atto
di esplorare le esperienze dei bambini che sta studiando, potrebbe andare
alla ricerca della sua “infanzia perduta” e farla diventare una ricerca
nostalgica di quello che è stato perduto o, al contrario, di quello che
non è mai stato vissuto. Steedman (1995) suggerisce pertanto, come antidoto
all’eccessivo coinvolgimento del ricercatore, che egli riconosca il proprio
personale carico emotivo mentre è volto a stabilire un contatto e a identificarsi
nell’altro. L'idealizzazione di un'infanzia perduta, che si ritraduce
anche negli immaginari di una spazialità perduta [5],
è infatti uno dei rischi maggiori che si corre quando si lavora con il
ricordo, così come quando si livellano le differenze temporali alla ricerca
di un'essenzialità dell'umano, colta nell'età infantile. In questi casi
il ricordo perde la sua funzione euristica e diventa strumento di colonizzazione
dello spazio infantile da parte dei ricordi o delle revêrie degli adulti,
diviene mitizzazione dell’infanzia del passato e mistificazione dell’esperienza
specifica dei bambini nei loro contesti di vita quotidiana. Si fa metafora.
Le parole raccolte negli anni durante interviste ad adulti (genitori ed
educatori) sui temi più svariati, e mai specificamente sul tema del ricordo,
rivelano infatti un frequente utilizzo di un’infanzia spazio-temporalmente
passata per comprendere quella dei bambini del presente.
“Quando io ero bambino non avevo bisogno di tutti quei giocattoli che
hanno i bambini di oggi”, T1.
“Noi ci divertivamo, eravamo più spensierati”, T2.
“Si stufano subito, dopo che gli compri un giocattolo ne vogliono subito
un altro perché l’hanno visto al compagno di classe o al compagnetto di
calcio o di catechismo”, T3
“I bambini di oggi non sanno più cos’è il rispetto. Noi - sarà stato così
anche per te - quando ci trovavamo di fronte ad una persona più grande
in classe non ci sognavamo nemmeno di rispondergli se venivamo rimproverati,
questi invece....”, T4
“Sono bambini cresciuti con la playstation non hanno più la fisicità,
le capacità motorie dei bambini di una volta. Perdere o vincere una partita
non ha più tanto significato per loro, sono abituati con i giochini al
computer e a rifare la partita. Anche solo 10 anni fa, i bambini piangevano,
si arrabbiavano, per questi di adesso...è lo stesso”, T4.
Il “quando eravamo bambini noi”, spesso declinato al plurale per rafforzare
l’idea di una comune condizione generazionale che trascende il singolo
individuo, è frequentemente usato dagli adulti come metro di paragone
per comprendere o per stigmatizzare i comportamenti dei bambini. Nella
sempre più diffusa “ansia di comprensione” sul “perché mio figlio fa così”,
in mancanza del supporto disaperi esperti, psicologici o pedagogici, il
recupero del proprio ricordo d’infanzia sembra essere la via più semplice
ma soprattutto più naturale. Si fa cioè in questi casi un ricorso stumentale,
razionale, consapevole e mirato al ricordo della propria infanzia (diverso
da quello invocato da Philo), che assume così tratti oggettivi. Un’evocazione
che non ascolta, come invita a fare Steedman, ma cade invece nell’atteggiamento
opposto di proiezione della propria infanzia passata in quella attuale
dei bambini.
Io credo, seguendo l’ipotesi di Philo, che il ricordo della propria condizione
durante l’infanzia possa comunque creare «frammenti di connessione» tra
il ricercatore (o l’adulto in generale) e i bambini, facendo leva sul
senso di comunanza dell’aver vissuto quella fase ma senza che per questo
si voglia affermare una coincidenza e negare le differenze temporali e
spaziali esistenti tra le diverse infanzie (Aries, 1976; James A, Prout
A., 1997; James, James, 2004).
In questa distanza, che non è «incolmabile» (Philo, 2003, p. 9), risiederebbe
la potenzialità del ricordo come strumento euristico. La condivisione
di status, anche se temporalmente sfasata, costituisce la base per un
possibile incontro «non tra due bambini nati in epoche differenti ma sempre
tra il bambino su cui si fa ricerca e l’adulto ricercatore, in cui quest’ultimo
cerca di assumere tra i vari punti di vista interpretativi quello del
suo self bambino» (Satta, 2010, p. 202). Il ricordo del ricercatore non
si limita quindi ad evocare un passato che rimane tale, bensì può essere
una via per ri-conoscere il mondo del bambino che ha davanti.
L’anello di congiunzione con i bambini potrebbe essere basato proprio
su questo vagare libero tra i propri ricordi, aiutati dall’immaginazione
e sostenuti nel loro recupero dall’emozione che spesso arriva prima di
ogni comprensione razionale, perché non sarebbe poi così diverso dal daydreaming
dei bambini, dalle fantasticherie che riempiono le loro giornate per molti
anni della loro vita. Questo loro tempo del ciondolarsi ad occhi aperti
sarebbe poi l’unico spazio che essi possiedono per stare da soli con se
stessi, lontani dalla presenza e dal controllo degli adulti. In questo
tempo fuori dal tempo si concretizza per Bachelard l’essenza della condizione
infantile, così come ben descrivono le sue parole:
quando siamo bambini, le persone ci mostrano così tante cose che noi perdiamo
il profondo senso del vedere. Vedere e mostrare sono fenomenologicamente
in violenta antitesi. E come potrebbero gli adulti mostrarci il mondo
che essi hanno perso!....Essi sanno; essi pensano di sapere; essi dicono
di sapere...Essi dimostrano al bambino che la terra è rotonda, che essa
gira intorno al sole. E il povero bambino sognante deve stare ad ascoltare
tutto questo! Che sollievo per le tue fantasticherie quando tu lasci la
classe e ritorni sulla cima della collina, la tua collina! (Bachelard,
1972, p. 127)
La cima della collina, non la classe o l’ambiente domestico popolato da
adulti, diventa il luogo in cui il bambino ritrova se stesso. In un periodo
in cui si parla di istituzionalizzazione e commercializzazione del tempo
libero dei bambini che sono entrati, al pari e più degli adulti, in un
regime di regolamentazione oraria delle loro giornate (Näsman, 1994),
non è probabilmente un caso che alcuni geografi dell’infanzia abbiano
attinto a questa immagine di spazio libero e incontrollato di Bachelard
(cfr. anche Aitken 2001). E non è ugualmente casuale che in un periodo
di proliferazione di tecniche di ricerca per avvicinarsi il più possibile
al mondo dei bambini, l’invito di Philo ai ricercatori sia di “non fare
troppo”. Sarebbe dunque nella connessione tra le fantasticherie dei bambini
e le revêrie degli adulti che si potrebbero creare quei frammenti di connessione
tra adulti e bambini. Da qui il suggerimento di raccogliere e osservare
il materiale, i diari, le parole e le azioni svolte dai bambini al di
fuori dai compiti che diamo loro come ricercatori perché si nasconderebbero
anche in queste azioni e prodotti apparentemente “inutili” i frammenti
«del senso di sé nel mondo di un bambino» (Philo, 2003, p. 18). Un mondo
che - non deve farci paura - può essere popolato da dinosauri e streghe
che vivono nella stessa strada in cui c’è il negozio dove il bambino va
a comprare il pane con suo padre. Un mondo dove l’immaginazione, l’emozione
e il ricordo si fondono in modo armonico, ma anche disarmonico, con elementi
della realtà. Potremmo pertanto dire che l’incontro tra bambini e adulti
(siano o meno ricercatori) può avvenire su un altro «ordine di realtà»
(Schutz, 1979), un ordine inter-generazionale in cui cioè elementi della
cultura adulta convivono con elementi della cultura infantile, al di là
di discorsi educativi e di divisione del mondo tra soggetti “da socializzare”
e soggetti “già socializzati”. Basterebbe cogliere l’invito offerto dalla
nuova sociologia dell’infanzia a cambiare la prospettiva da cui guardare
i bambini per toglierli dal cono d’ombra delle proiezioni adulte e iniziare
a vederli qui ed ora (Satta, 2012).
“Quando io ero piccolo”. I ricordi dei bambini
Sono le narrazioni che gli adulti fanno del mondo e dell’infanzia a legittimare,
o più comunemente, a delegittimare certi tipi di immaginari e forme di
immaginazione infantile. Gli adulti con le loro narrazioni influenzano
sia il modo in cui si agisce con i bambini sia la loro stessa esperienza
nella vita quotidiana e nella relazione con il mondo adulto (James, James,
2004; Holland, 2004) e per questo esse ricoprono un ruolo centrale nella
comprensione del rapporto tra le generazioni.
Anche la rappresentazione diffusa dei bambini come deficitari di conoscenze
perché non ancora maturi (Greene, Hogan, 2005) fa sì che li si pensi spesso
come carenti di ricordi, mentre l’ascolto e l’osservazione attenta dei
bambini rivelano che anche i bambini hanno ricordi e che raccoglierli
può forse fungere da argine ad una colonizzazione dell’infanzia da parte
dell’infanzia ricordata dagli adulti.
L’ascolto delle narrazioni che i bambini fanno del proprio quotidiano
contribuisce non solo a decostruire le narrazioni dominanti su un’infanzia
idilliaca ma a scoprire il ruolo giocato dai loro stessi ricordi e dall’evocazione
del tempo passato nella costruzione del racconto di sé.
Brevi estratti che qui riporto di alcune interviste raccolte durante una
ricerca sui consumi di bambini e bambine di dieci anni [6],
sembrano essere un’adeguata risposta a quell’infanzia ricordata dagli
adulti citata nelle pagine precedenti. Non sono le revêrie di Philo ma
sono racconti stimolati dalle fotografie che i bambini hanno scattato
di tre “cose” che erano per loro importanti [7].
La domanda con cui si dava avvio all’intervista di gruppo era descrittiva,
si chiedeva cioè ai bambini di dire cosa aveva fotografato e perché “la
cosa” fotografata era importante. Quanto è emerso in molte occasioni,
senza che ci fosse alcuna sollecitazione a riguardo, è che l’importanza
della “cosa” custodita gelosamente era legata a dei ricordi della loro
infanzia.
Dopo ho fotografato la coppa che mi hanno dato a calcio. Quando l’anno
scorso ho fatto il capitano della squadra e facciamo anche tanti goal
e dopodiché abbiamo vinto questa coppa che c’è scritto sotto, sotto c’è
scritto data 2009 e subito il mese.
Beh, è importante perché mi ricorda quando ero il capitano e anche quest’anno,
ma però quest’anno c’è un altro mio compagno che si chiama R. e che adesso
è il terzo capocannoniere che adesso mi rifanno capitano, ma lui qualche
volta fa il capitano e in alcune lo faccio io. (Bambino1, 10 anni)
La prima è la foto della mia vecchia racchetta da tennis che adesso non
uso più, che però l’ho usata per tanto tempo, quindi era un bel ricordo.
L’ho presa l’anno scorso, perché quando ho iniziato a fare tornei. Poi
la foto del mio computer, insomma fin da piccolo l’ho usato, non solo
per giocare, ma già per fare magari programmi, vedere come sono fatti
così. Mio papà spesso, visto che lui lavora proprio con il computer, è
ingegnere informatico e quindi lui un giorno, l’anno scorso, c’erano dei
pezzi di altri computer, potenti del loro ufficio solo che non venivano
più usati, allora con dei pezzi di computer che avevano in ufficio, più
altri pezzi di computer ha costruito questo qua, perché è molto potente.
E quindi questo è quello che ho scelto. Ce l’ho da tantissimo tempo…(Bambino2,
10 anni)
Io questo peluche l’ho avuto, me l’ha regalato mia mamma quando ero piccolo,
ero all’asilo nido. Da piccolo sono sempre stato un po’ pigrone all’inizio
e quindi andavo all’asilo, all’asilo-nido, solo che non stavo da solo
dopo allora le maestre hanno consigliato a mia mamma di darmi qualcosa
con questa… così… e allora mi ha regalato questo. Da quel giorno sono
stato così e da lì me lo sono tenuto fino adesso (Bambino3, 10 anni)
Dopo ho fotografato il mio telefono che ce l’ho da tanto tempo, io ci
tengo molto perché ho fatto tante foto sul telefono che mi ricordano belle
esperienze che ho fatto e mi ricordano un po’ il passato e tanti tanti
messaggi che ho ricevuto...(Bambina4, 10 anni)
Beh, io ho due foto. Una rappresenta un serpente di mio papà, questa è
la mia scrivania che me l’hanno regalata e un altro è il lettino perché
mi ricorda quando ero piccolo…(Bambino5, 10 anni)
Ho fotografato i gatti perché mi piacciono e soprattutto perché mi fanno
ridere per i ricordi. Macchia mi fa venire in mente quando l’ho trovato
e quanto è pazzo. Cammina sui muri. Una volta lui vede il vetro della
finestra, no? Dopo comincia a correre intorno a tutta la casa, dopo comincia
ad andare sul divano e buttarsi addosso con la testa. Così psss! E poi
ci riprova anche! (Bambino6, 10 anni)
Gli oggetti diventano così strumenti per addomesticare il passato, dei
ponti adoperati dagli stessi bambini per fermare il trascorrere del tempo
e ritornare in certi momenti della loro vita “bambini” [8].
Il “quando ero piccolo” non è infatti una proiezione temporale appartenente
solo agli anziani, agli adulti o ai giovani, bensì anche ai bambini come
ben sanno gli psicologi dell’infanzia che da tempo lavorano con i ricordi
dei bambini. Anche la sociologia potrebbe riconoscere questo aspetto della
temporalità infantile, e non solo quello rivolto al futuro, e iniziare
ad analizzarla con una chiave di lettura differente da quella terapeutica
adottata dalla psicologia.
Dare valore ai ricordi dei bambini significa dare valore al loro modo
di “fare esperienza” e di dare un senso alla propria storia attingendo
dal tessuto della vita quotidiana (Jedlowski, 1994). Significa riconoscerli
come attori sociali, ma non retoricamente, bensì a partire dall’ascolto
dei loro racconti, più o meno fantastici, di addomesticamento spaziale
e temporale. Se addomesticare significa «fare propria, una parte della
realtà (che si presenta come nuova, straniera o selvaggia) rendendola
familiare» (Mandich, 2010, p. 9) attraverso delle pratiche e degli usi
concreti, non diversamente, raccontare la propria storia, è un modo per
creare legami con l’altro e con un altrove spazio-temporale. D’altronde
come afferma Bruner «le storie rendono l’inaspettato meno sorprendente,
meno arcano: addomesticano l’imprevisto, gli danno un’aura di ordinarietà»
(2002, p. 102). In una prospettiva arendtiana dell’identità personale
come necessariamene relazionale (Arendt, 1989), potremmo dire che affinché
il significato di una storia personale prenda la forma della narrazione
è necessario un altro disposto ad accoglierla (Cavarero, 2005). Gli altri
sono sicuramente i coetanei, con cui i bambini scambiano e condividono
quotidianamente raccontandosi le loro esperienze e idee del mondo e creando
così legami di amicizia. Basti pensare a quanto i bambini parlano tra
loro quando sono in compagnia e a quanto cercano in ogni momento, anche
disobbedendo ai “grandi”, di crearsi occasioni per comunicare, sia che
si trovino a scuola, a casa, in palestra, a danza, sui campi di calcio,
in chiesa o a teatro. Dietro quello che gli adulti definiscono “brusio”
c’è un operoso scambio di racconti, accompagnati da sentimenti di allegria
e di dispiacere, attraverso cui i bambini si costruiscono spazi di riconoscimento.
E gli adulti? Che spazio occupano? Molto dipende da dove decidono di “fare
casa”, di collocare cioè la loro biografia nell’asse temporale passato-presente-futuro,
ma soprattutto dal senso dato a ciascuna fase. È proprio in questa attribuzione
di senso, mediata dalla narrazione e dall’ascolto, che si gioca la possibilità
del riconoscimento reciproco tra adulti e bambini.
Qualche riflessione conclusiva
Non credo che si possa parlare per tutti gli estratti qui presentati di
narrazioni, secondo il significato di Riessman (2002), eppure è importante
sottolineare, a partire da una prospettiva di sociologia dell’infanzia,
che i ricordi degli adulti costruiscono storie che fungono da chiavi interpretative
per avvicinarsi al mondo dei bambini. Se l’interpretazione data in questo
articolo è stata quella di un ricordo che spesso mitizza un passato e
mistifica un presente colonizzando lo spazio infantile, c’è anche la possibilità
che il ricordare, come revêrie, funga da ponte per l’incontro con i bambini
su un altro livello di realtà.
Le storie del passato raccontate dagli adulti o quelle proprie del ricercatore
che “emergono” nel momento in cui cerca di instaurare un contatto con
dei bambini, possono servire per interpretare le “premesse implicite”
degli adulti sull’infanzia e per capire come la guardano. Secondo una
visione linerare del tempo i ricordi e la memoria vengono riconosciuti,
e ascoltati, solo agli adulti e ancora di più agli anziani; i brevi resoconti
sui ricordi dei bambini qui delineati aprono degli scenari sull’infanzia
che essi ricordano su cui raramente da sociologi ci soffermiamo, perché
ancora condizionati dal paradigma dello sviluppo e della socializzazione
(James, Jenks, Prout, 2002). Nell’adottare un altro sguardo sull’infanzia,
l’approccio narrativo e biografico può essere una via per costruire altre
rappresentazioni, non solo sui bambini ma dei bambini.. Se, come afferma
Riessman, le narrazioni possono forgiare legami tra «la biografia personale
e la struttura sociale, tra il personale e il politico» (2004, p. 708)
allora anche i ricordi raccontati e ascoltati possono creare dei legami
tra persone e, auspicabilmente, anche tra le generazioni.
Note
1 Le riflessioni contenute in
questo articolo si collocano all’interno di un dibattito interno alla
sociologia, all’antropologia e alla geografia dell’infanzia in cui il
bambino nonè considerato una semplice “variabile” da aggiungere nell’analisi
dei fenomeni sociali bensì un soggetto a partire da cui rileggere e ridefinire
tali fenomeni nel loro complesso.
2 Per la sociologia italiana valga
per tutti il riferimento al volume di Alberto Melucci (1998).
3 Sull’uso della memoria come
“strumento di ricerca” si vedano per un approfondimento Radstone (2000)
e Campbell, Harbord (2002).
4 Il concetto, riflesso di una
più generale infantilizzazione della società, si riferisce al fenomeno
editoriale del “cross-over” che vuole indicare quei romanzi adatti sia
ad un pubblico di giovani e bambini che ad un pubblico di adulti. Tra
gli esempi più famosi si pensi solo al successo planetario di Harry Potter.
5 Si veda per un’introduzione
al tema Philo (2000).
6 Si tratta della ricerca “La
costruzione quotidiana delle responsabilità nelle pratiche e nelle rappresentazioni
di consumo di genitori e figli” diretta dal Prof. Valerio Belotti dell’Università
di Padova come unità locale del Prin 2008 “La responsabilità nelle relazioni
familiari: pratiche e norme, interpretazioni e rappresentazioni” il cui
coordinatore nazionale è il Prof. Guido Maggioni dell’Università di Urbino.
Le riflessioni presentate in questo contributo esulano dai temi e dagli
obiettivi del progetto di ricerca condotto per il Prin, e sono infatti
da collocarsi, come scritto nella premessa, in un personale percorso di
ricerca e analisi di chi scrive.
7 Uso volutamente tra virgolette
il termine “cose” perché sin da subito gli stessi bambini hanno chiesto
se potevano fotografare anche animali e piante in quanto importanti.
8 Le ricerche sul tempo dei bambini
raccontano di come essi vivano il loro presente scissi tra il desiderio
di “diventare grandi” e quello di “tornare piccoli” rivelando così una
più complessa relazione con il tempo di quella che comunemente gli viene
riconosciuta (cfr. James, 1997; Christensen, James (2001).
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